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"LA ROSA PURPUREA DEL CAIRO" (1985)


Quando ci parlano di magia, subito la nostra immaginazione inizia a presentarci infinite realizzazioni di fantastiche realtà. Ogni piccolo particolare acquisisce fondamentale importanza e si pone come base per stupefacenti e fantasmagorici viaggi, senza la necessità di muoversi di un solo centimetro.

Queste poche righe mi riportano a una parte del meraviglioso mondo in cui è immerso Woody Allen, eccentrico e geniale regista che ama destreggiarsi tra infinite realtà, da quelle più comiche e assurde, a quelle più drammatiche e tragiche.


Ho voluto rendere omaggio a questo fantastico regista, scegliendo una delle pietre miliari del suo cinema: “La rosa purpurea del Cairo” (1985). Questa è una delle sue opere più riuscite sia dal punto di vista letterario, che da quello artistico e filosofico. Grazie ad una semplicità di linguaggio e di espressività artistica, Woody Allen è riuscito a operare una rottura dello schermo cinematografico, annullando la classica distanza presente tra spettatore e film. Metaforicamente questa rottura apre un mondo d’infinite e profonde riflessioni filosofiche, sulle quali si potrebbe scrivere un intero volume. La riflessione che mi ha colpito maggiormente e sulla quale vorrei concentrarmi è quella riguardante il dualismo tra la realtà che vive lo spettatore e il suo sogno di poter vivere quella di un film.


“La rosa purpurea del Cairo” infatti, narra la vicenda di Cecilia (Mia Farrow), maldestra e sognatrice cameriera, alla quale il cinema sembra essere l’unico modo di evadere da una realtà in cui non si rispecchia e in cui soffre. Siamo nel periodo della Grande Depressione e lei è prigioniera di un matrimonio infelice e di un marito manesco che la tradisce. Solita a passare gli interi pomeriggi in un piccolo cinema, un giorno viene licenziata e si rifugia nell’unico posto in cui si sente se stessa. Tornando a rivedere così tante volte il film “La rosa purpurea del Cairo”, uno dei protagonisti, Tom Baxter (Jeff Daniels), la nota in platea e, invaghitosi, decide di uscire dallo schermo e di fuggire con lei. Imprevisto che getterà scompiglio non solo nella delicata situazione esistenziale di Cecilia, ma anche nella realtà economica dell’industria cinematografica.


Woody Allen si avvale di un escamotage comico e assurdo, per porre le basi della sua riflessione. Il tema è lo stretto rapporto tra evasione e sogno, tra realtà e finzione, tra routine e libertà. Il regista sembra strizzare l’occhio a noi spettatori e domandarci quante volte abbiamo desiderato rifugiarci nella realtà di un film. E’ inutile negarlo, ma questa è la condizione di tutti noi irriducibili cinefili e sensibili sognatori.

Woody Allen conduce un’attenta e profonda analisi di questa sensazione, come lui solo è in grado di fare: con ironia, magia e meraviglia, senza dimenticarsi di un pizzico di malinconia.

Il risultato è strabiliante. “La rosa purpurea del Cairo” è una perla, uno dei più grandi capolavori del suo cinema e probabilmente del cinema stesso.


Tale risultato è stato ottenuto anche grazie alle formidabili performance dei due attori protagonisti. Jeff Daniels con grande maestria riesce a destreggiarsi tra due ruoli in competizione tra loro: il fuggiasco Tom Baxter e lo spregiudicato attore hollywoodiano Gil Sheperd. Mia Farrow è invece commovente: con grande dolcezza e delicatezza riesce a dare vita ad un personaggio disincantato e fragile.


È un film carico di valori e spunti di riflessioni, che sottolinea l’importanza di sognare, perché una vita senza sogni, forse è una vita che non vale la pena di essere vissuta.



Giacomo Tinti



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