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"BELFAST" (2021) - Recensione



“Belfast” di Kenneth Branagh, è una piccola perla cinematografica in grado di scaldare il cuore del grande pubblico. E fa specie pensare che se la giochi agli oscar con ben 7 nominations, sfidando per il Miglior Film grandi colossi hollywoodyani: da “West Side Story” di Steven Spielberg, a “Licorice Pizza”, di Paul Thomas Anderson.


La forza di “Belfast” è racchiusa invece nella sua estrema semplicità, e nella sua magnifica estetica. Kenneth Branagh ci accompagna in un viaggio semi-autobiografico, nella Belfast della sua infanzia, dove crebbe e giocò fino all’età di 9 anni.


Siamo nel 1969 e a farci da narratore è il piccolo Buddy, energico e vivace bambino, che vive in un contesto di scontri sociali, cambiamenti culturali e violenza settaria. Nonostante tutto, Buddy cerca di crescere sereno e spensierato nella strada del suo quartiere, trovando supporto e consolazione nei carismatici genitori e negli arzilli e fiabeschi nonni.

Scoprirà l’amore, si interrogherà sul concetto di identità e sul senso di appartenenza, e sarà tormentato dai deliranti sermoni del pastore protestante.


Kenneth Branagh adopera il punto di vista del suo giovane alter ego, con una costante ripresa dal basso verso l’alto, prediligendo l’uso dei primi piani, con un’attenzione maniacale ai dettagli e alla messa in scena. L’uso del bianco e nero non fa altro che aumentare il senso di nostalgia e di ricordo, mentre la bellissima fotografia di Haris Zambarloukos esalta la magnifica fotogenicità del cast, scelto alla perfezione.


La cifra stilistica risultante è chiaramente di stampo teatrale (grande background professionale del regista), ma che grazie all’uso sapiente e accurato della macchina da presa, riesce a risultare magnetica e affascinante sullo schermo cinematografico.


Il regista britannico realizza un grande omaggio alla sua città natale, esaltandone la sua forza d’animo, la sua allegria, il suo arguto umorismo, le sue tensioni e contraddizioni.

“Belfast” è un inno alla vita, un elogio ai sentimenti e ai ricordi, ma è anche un’attenta riflessione sul senso d’appartenenza e a cosa sia giusto e sbagliato.


Branagh dedica il film alla sua gente, al popolo di Belfast, “a chi è rimasto, a chi se n’è andato e a chi si è perso”, e si interroga anche sul significato d’identità, di cosa ci definisca realmente: forse nel suo caso sono stati fondamentali il teatro e il cinema, unici momenti a colori in “Belfast”, che hanno fatto sognare il piccolo Buddy e che hanno poi formato e consacrato il grande artista Kenneth Branagh!


Viva il cinema!

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