Una vecchia tenda a moschiera, spinta dal vento di una sera estiva, lascia intravedere nel neon di una cucina una donna intenta a riempire uno zaino. La scena è capovolta, come se la si stesse osservando a testa in giù. «Ti viene il mal di testa a stare così», dice Angela, uscendo dalla cucina, al figlio Anto’.
La prima scena di Spaccapietre – Una promessa, film dei fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio e unico lungometraggio italiano a concorrere alla 77° edizione della Mostra internazionale del Cinema di Venezia nella rassegna autonoma della Giornata degli Autori, è ripresa dagli occhi di Anto’ che si fanno macchina da presa, significativamente ponendosi come sguardo privilegiato dei 104 minuti di film a seguire. Anto’, che è ancora un bambino e sogna di diventare un archeologo da grande, presta metaforicamente la vista anche al padre Giuseppe rimasto ferito ad un occhio per un incidente sul lavoro, aiutandolo col collirio e dando voce a ciò vede dal balcone di casa con il binocolo. Così segue la madre andare a lavoro in piena notte, attraversare il paese deserto sotto i lampioni, e quando non può più scorgerla alle pupille sostituisce la fantasia. E, in un rovesciato stereotipo della favola della buonanotte, racconta al padre storie che lo traghettano verso il sonno, come quella del nonno, che era lo spaccapietre del paese, mestiere poi adottato da Giuseppe. La prima parte del film, quindi, sembra essere raccontata dal vissuto del protagonista più piccolo, quasi ad avere fiducia nella capacità affabulatoria di plasmare il reale, per quanto cruda la realtà sia e resti.
Nella seconda parte, invece, sarà la Storia ad imporsi. C’è infatti un evento che fa da spartiacque lungo la narrazione ed è la morte di un giovane ragazzo africano a causa di un incendio scoppiato in una baracca del campo dove Giuseppe e Anto’ finiranno a lavorare per poter vivere. Ma l’antefatto, da cui si scateneranno una serie di scelte e conseguenze, è la morte improvvisa di Angela per un malore sul posto di lavoro. Angela è una lavoratrice stagionale, lavora nei campi sottoposta ad orari e fatiche disumane e sottopagate. La sua morte inaspettata, collocata narrativamente all’inizio del film, dà una virata ritmica non indifferente, portando i due membri della famiglia rimasti, che sono alle prese con pesanti ristrettezze economiche, a risolversi a prendere anche loro uno di quei pullman su cui si imbarcava Angela e ad andare a lavorare nelle remote campagne pugliesi, non lontano dal paese - sempre in Puglia - dove vivono. Pochi affetti nello zaino, cuore pesante per il recente lutto, e una promessa strappata irrealisticamente al padre («ti riporterò mamma»), Anto’ si trova catapultato nella brutale piaga del caporalato.
L’immagine del bus che porta lui e Giuseppe lontano nel grano alle prime luci dell’alba – realizzata grazie alle eccellenti fotografia di Antoine Héberlé e scenografia di Giorgio Barullo – è la chiusa del tono poetico che caratterizza fino a quest’altezza il film, d’ora in avanti più duro.
Infatti, se fino a questo momento il timbro scarno delle scene e del passaggio da una scena all’altra e della mancanza quasi assoluta di musica aveva conferito al tutto un’aria quasi simbolica e sospesa, complice l’arsura dell’estate pugliese, ora questo nudo essere tutto fatti del film assume le caratteristiche del docufilm a sfondo sociale. Anto’ e Giuseppe vivono da protagonisti e spettatori, quasi da infiltrati in quanto bianchi e italiani, i ritmi e lo status inumano cui sono costretti uomini e donne – adesso in larga parte provenienti dall’Africa – quando arrivano in Italia e si dedicano a queste attività per campare. Anto’ avrà modo di incontrare qui Rosa, amica di Angela e come lei lavoratrice nei campi, donna dal presente difficile, proprio per l’ambiente bestiale, quasi onirico, del lavoro. La realtà dei campi sembra essere un mondo a parte, dove vigono antiche leggi di sangue e sopraffazione, lontano dal patto sociale moderno.
La seconda parte del film, infatti, marcia sempre più sulla scia della violenza del più forte, dell’esasperazione fisica ed emotiva cui sono condotti in una spirale senza fuga i protagonisti, tramutando così il racconto in una storia di allucinazione e sangue che a tratti ricorda le storie del sud selvaggio e postmoderno di Cormac McCarthy, il cui immaginario ha ispirato diversi e importanti film. A volte, però, questo sconfinare del film in generi diversi e poco approfonditi – per via della compattezza del minutaggio - priva la pellicola di un’unità di fondo, lasciando in alcune scene confusi sul focus della narrazione, su cosa si stia cercando di mostrare e perché.
Assoluti punti di forza, d’altra parte, sono i personaggi e l’interpretazione che di essi danno Salvatore Esposito, Samuele Carrino e Licia Lanera, rispettivamente nei panni di Giuseppe, Anto’ e Rosa. Esposito, con una recitazione controllata, da sottrazione, dà al suo personaggio un profondo senso di animazione interiore e sofferenza, come una mina sul punto di esplodere. Licia Lanera recita fisicamente, lasciando parlare il corpo in un ruolo dove il corpo viene abusato, guardato, picchiato, buttato via, dando così prova di una grande presenza scenica. Così come Carrino, il più dinamico – anche per il ruolo a lui destinato – che con la sua istintività da bambino fa da collante fra queste due adulte solitudini.
Spaccapietre – Una promessa viene presentato a Venezia il 7 settembre e noi di Fotogrammi-Radio Statale vi invitiamo alla visione quando uscirà nei cinema. Recensione a cura di Giulia Annecca
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