L’incontro con i film di Friedl vöm Groller ha il carattere di un innamoramento: prima il fascino, poi il tentativo di comprensione, infine la consapevolezza di non poterne più fare a meno. L’omaggio alla fotografa della cineasta austriaca si è tenuto al Cinema Beltrade la sera di mercoledì 20 novembre all’interno della sezione Fuori Formato, a cura di Tommaso Isabella, per il Filmmaker Festival. La proiezione si è articolata in tre momenti, scanditi da pause in cui la stessa vöm Groller, presente in sala, ha parlato del suo lavoro in relazione ai film appena visionati.
Film in 16mm, un rullo di pellicola da trenta metri (quindi meno di tre minuti) montato in macchina bianco e nero e zero suono. Friedl ha spiegato di aver sempre preferito l’analogico perché l’analogico ha una fine reale, mentre il digitale un punto d’arresto fittizio, che dà l’illusione che la morte non esista. Da ragazza, quando era una giovane studentessa di fotografia nei sixties, non riusciva a scendere a patti con la mancanza di flessibilità del mezzo fotografico, troppo lento e rigido rispetto alla vista umana che può mettere a fuoco in una frazione di secondo e regolare altrettanto rapidamente l’intensità luminosa della scena, quindi ha cercato di mutare a suo favore l’inflessibilità della macchina fotografica durante le sessioni di ripresa sistemandola su un cavalletto così da avere uno sguardo fisso e prolungato sui soggetti, cosa che le preme particolarmente.
Questo le ha permesso di poter guardare a lungo le persone, una pratica socialmente inaccettabile che solo i bambini o gli animali, segnati dall’innocenza e dall’ingenuità agli occhi di chi è guardato, possono permettersi. Le interessava potersi specchiare negli occhi di qualcuno, certificare la propria esistenza tramite lo sguardo altrui, cosa che l’ha aiutata in un momento di depressione della propria vita quando l’assillava il problema di esistere ed esserci e il significato di questo esserci. Il suo, però, non è un ruolo passivo: durante le riprese non si è limitata a stare dietro la camera, ma spesso ha provocato delle reazioni nei soggetti per cogliere le loro emozioni, come quando in “Passage Briare” ha mostrato il seno al soggetto che stava riprendendo.
È stata accostata al movimento dell’azionismo, le cui radici vengono individuate da molti nell’Austria post seconda guerra mondiale, che si distingue dall’happening e dalla performance per un uso insistente di immagini di carattere psicologico. Infatti l’aspetto psicologico interessa tutti i lavori di Friedl vöm Groller: la fissità del mezzo comporta la reazione a questa fissità, scatenando nei visi di chi è ripreso, sia per l’intervento della vöm Groller sia per la staticità cui si è costretti, moti che provengono direttamente dall’interno. È il motivo per cui Friedl non edita i suoi lavori, non fa post-produzione né scrive precedentemente un copione: nel vivere l’attimo si sprigiona l’aderenza al reale. Tuttavia strappare una risposta l’è sembrato rubare, appropriarsi indebitamente di qualcosa ed è una delle ragioni del suo coinvolgimento nelle pellicole. Di qui il definire i soggetti ripresi le sue “vittime”.
In “Allegoria”, il primo film proiettato, lei è la vittima di se stessa, mentre in “Lisa” emerge tenerezza per l’imbarazzo e allo stesso tempo la fiducia da dolce abbandono del soggetto nell’essere messa a nudo dalla camera e da chi sta dietro la camera.
In “Spucken” un ragazzo sputa per ben tre minuti noccioli di ciliegie all’indirizzo della camera ed è un’immagine così calamitica da far desiderare di ricevere noccioli di ciliegie sottoforma di sputo.
“Le Barométre” è irresistibile per gli occhi glauchi del soggetto, evidenziati dal bianco e nero, che in un bagno parigino dalle mattonelle lucide, vasca e bottiglie di plastica come vasi dei fiori, segue prima reticente poi sfrontato la camera.
In tutti i film si ha l’impressione di familiarizzare con chi è ripreso e si è ipnotizzati dai dettagli su cui la vöm Groller si focalizza e che sembrano svelare il nocciolo della loro personalità. Come il reticolo di pelle morta di una vecchia e il movimento spasmodico delle sue labbra o le mani di una donna che spalma sul proprio corpo creme e prodotti vari o, ancora, l’atto sessuale tra due persone.
L’ultimo film è “Max Turnheim”, progetto nato per caso nel 2002 e poi diventato una costante che testimonia anno per anno la vita di questo ragazzo parigino tra avvicendarsi di relazioni sentimentali, la nascita della figlia, il distacco dalla famiglia e il lavoro. Il reportage del passaggio dalla giovinezza all’età adulta di quest’uomo, che proseguirà fin quando Max darà il consenso e che mostra già nel 2018, come dice vöm Groller tra il serio e il faceto, «cosa la vita gli ha fatto».
Giulia Annecca
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