“Prospettive”, la sezione del Filmmaker Festival dedicata alla scoperta del cinema italiano delle nuove generazioni, ha rispettato le sue premesse: sperimentazione e diversità. Sabato ventitré novembre all’Arcobaleno Film Center sono stati proiettati gli ultimi due film in concorso nella sezione, Domani chissà, forse di Chiara Rigione e Giù dal vivo di Nazareno M. Nicoletti.
«Cos’è il tempo?» si chiede una bambina all’interno del documentario di Rigione, racchiudendo in una domanda il senso del lavoro della giovane regista campana che, partendo dal documentario Tv in paese del 1961 di Ansano Giannarelli, si reca a Vallepietra (un comune di montagna tra Campania e Lazio) a documentare la sua recherche. Passato presente e futuro si sovrappongono nella vita di Vallepietra, un sentimento del tempo dettato anche dalla regia e dal sapiente montaggio di Ringioni che, tramite le voci del passato e le immagini del presente e viceversa e l’uso della mini tv, crea delle immagini davvero accattivanti in cui il tempo assume le spoglie di un eterno ritorno. La prospettiva, paradossalmente, sembra essere data più dal passato che dal futuro grazie ai ricordi di chi il tempo lo percepisce come scatto, scarto e perdita. Ecco allora che il cerchio si fa linea e «Domani chissà, forse» (le parole che chiudono il documentario di Giannarelli e quello di Ringioni) diventa un punto di partenza che apre alla possibilità di un futuro.
Giù dal vivo di Nazareno M. Nicoletti è anch’esso una riflessione sul tempo, seppur con modalità diverse, ed è accostabile a quello di Rigione anche per un montaggio strabiliante. Nel documentario di Nicoletti una lunga ripresa dall’alto porta poi nelle zone più “basse” di una città, le periferie, i bassifondi, le realtà ai margini. Un film giocato sul rapporto tra prospettiva e profondità tramite le vite di tre abitanti della periferia est di Napoli; a fare da sfondo un ospedale psichiatrico, la casa di un pugile mascherato e le strade periferiche del capoluogo partenopeo. Il tempo è ricostruzione, anche perché nel film il tempo è quello di chi lo vive, cioè persone dallo sguardo non comune, quasi una realtà parallela che pure esiste all’interno di quello che è il tempo ordinariamente percepito come l’arco di una giornata, con i suoi ritmi e le sue fasi.
Un uomo con la maschera che si allena h24 e non esce mai da casa, un uomo che va a Milano per ritrovare le sorelle che non vede da una vita e una giovane donna che prepara un regalo alla madre e va a trovarla confrontandosi e specchiandosi con la sua sofferenza, un groppo che non riesce a mandare giù e che brucia e cui non riesce a dare un nome, ma che sa solo estinguere facendosi del male.
In entrambi i film il tempo è ripreso e montato in studio, riprodotto per riprodurre una dimensione tutta cinematografica.
Giulia Annecca
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